Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in certi uffici pubblici». Dà un’occhiata fuori e vede due persone affacciate alla finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nell’oscurità, in silenzio». Più tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona. Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura. E l’angoscia si espande, nulla può arrestarla. Su questa scena si consuma una storia di amore, inganno e morte.
Pubblicato nel 1933, quando la natura della Russia di Stalin era ancora ignota all’esterno, e nessuno poteva raccontarla dall’interno, questo romanzo è una prova sconcertante della precisione visionaria di Simenon. Nel ritmo torpido e maligno della vita a Batum troviamo tutti i tratti dell’ossessione poliziesca che fa da sfondo al nostro tempo. Nulla di essenziale c’è da aggiungere a questa immagine, che ha una sonnambolica sicurezza. Non vi è qui alcuna preoccupazione ideologica: sola all’opera è la capacità primordiale di cogliere un’aria, un’aura, un’essenza nascosta. Così, forse senza accorgersene, Simenon ha scritto il romanzo russo di quegli anni che altri non hanno potuto scrivere.
· 17 settembre 2013